20 Maggio 2015, h. 11:40

La relazione del Presidente di Confartigianato Giorgio Merletti

Assemblea2015_merletti Confartigianato protagonista della sfida di Expo

Cari Colleghi imprenditori, Autorità, Signore e Signori, benvenuti all’Assemblea annuale di Confartigianato Imprese, benvenuti a Milano, benvenuti a Expo2015.

Sono emozionato di incontrarvi in un’occasione così prestigiosa e straordinaria come l’Esposizione Universale. È stata ed è una grande sfida per il Paese, per tutti noi. Le difficoltà del percorso di realizzazione dell’Expo sono note a tutti, come nota a tutti è la determinazione con cui è stato perseguito questo risultato, che ha visto anche noi protagonisti, come imprese e come Organizzazione. Oggi siamo qui e siamo al centro dell’attenzione del mondo.

Voglio condividere con voi l’orgoglio di essere la prima Organizzazione imprenditoriale a svolgere la propria Assemblea all’Expo. In questa Esposizione, Confartigianato ha talmente creduto da aver coinvolto centinaia di imprese nella sfida ad essere presenti per testimoniare, con i loro prodotti e servizi, l’eccellenza dell’artigianato e delle piccole imprese italiane e mostrare il bello, il buono e il ben fatto del made in Italy.

Lo facciamo sia qui, a Palazzo Italia, con la nostra presenza istituzionale, sia al nostro Italian Makers Village, che abbiamo realizzato nel cuore creativo di Milano, a Via Tortona, dove, grazie a Confartigianato, persone di tutto il mondo possono ammirare, gustare, toccare, acquistare la qualità dell’artigianato italiano.

Partecipare a Expo è un onore per noi imprenditori che ogni giorno ci misuriamo con le sfide dell’economia globalizzata. Siamo qui per mostrare i valori del nostro sistema produttivo, fondato sul sistema delle piccole imprese, e per riaffermare con orgoglio la qualità e lo stile del saper fare italiano. Oggi e per sei mesi il mondo ci guarda. Vogliamo essere, e lo saremo, all’altezza della reputazione di cui gode il made in Italy all’estero.

Export piccole imprese vale 101 miliardi, nel 2014 cresce del 3,5%

Sui mercati internazionali aumenta ogni giorno il numero di consumatori che apprezzano e acquistano made in Italy. Quello vero, quello autentico, quello che produciamo noi, nei nostri territori, che è abbigliamento, è meccanica di alta precisione, è cibo, è tecnologia, è arredamento… è l’universo delle nostre aziende che sanno unire sapientemente tradizione e innovazione per dare vita ai capolavori del fatto a mano, del su misura, del fuori serie. È lo stile di vita italiano, che tutto il mondo ammira e spesso ci invidia.

Grazie a questi valori, nel 2014 l’export dei settori con la maggiore presenza di piccole imprese ha toccato 101 miliardi di euro, con una crescita del 3,5% rispetto ai 98 miliardi del 2013. La performance delle piccole imprese è quasi doppia rispetto all’aumento del 2% registrato lo scorso anno dal totale delle nostre esportazioni. Questo è il valore artigiano delle nostre aziende, è la dimensione produttiva del futuro.

È, allora, necessario un maggiore impegno del Governo per supportare i processi di internazionalizzazione delle piccole imprese e dell’artigianato, che contribuiscono a diffondere all’estero non solo le loro produzioni, ma anche la cultura del nostro Paese. Sono le questioni che abbiamo indicato all’attenzione ricorrente dell’ICE, con cui abbiamo costruito un rapporto di valore che si evidenzia in questi giorni con l’avvio del progetto EXPO–RT 2015 che porterà in Italia 120 buyers dei diversi settori ad incontrare oltre 1000 piccole imprese a Milano e sul territorio.

Made in Italy è fatto da 4,3 milioni di Pmi, con 11 milioni di addetti

Oggi, a parole, tutti celebrano il made in Italy. Noi, con i fatti, abbiamo sempre difeso il nostro patrimonio di impresa diffusa, di piccole e piccolissime imprese: parliamo di 4 milioni 300mila aziende, il 99,4% del sistema imprenditoriale, che danno lavoro a 11 milioni di persone. Lo abbiamo difeso e lo difendiamo oggi da chi ancora pensa di disegnare il futuro dell’economia con provvedimenti “a taglia unica”.

Per questo dico: attenzione agli improvvisati cantori del made in Italy. Il valore artigiano, indipendentemente dalle dimensioni e dai settori d’impresa, è quello che si realizza in Italia, con il lavoro italiano, con un’identità ben precisa e riconoscibile delle materie prime e delle fasi di produzione. Non è un’etichetta attaccata su prodotti realizzati chissà dove!

Italia e Ue in grave ritardo su difesa made in Italy

Chi ora inneggia a questi valori, dov’era quando si trattava di difenderli in sede europea? Va detto con chiarezza che sulla difesa del made in Italy, l’Italia e l’Europa sono in grave ritardo: il continuo rinvio dell’approvazione del regolamento comunitario sul made in testimonia scarsa attenzione e scarso orgoglio da parte delle istituzioni europee che, invece, dovrebbero valorizzare la qualità produttiva delle imprese del nostro continente. Anche così si costruisce identità europea! Non perdiamo l’occasione del prossimo Consiglio Competitività del 28 maggio per rimetterlo al centro della discussione.

Su mercato interno non si vede la ripresa

Nel mondo, dicevo, apprezzano sempre di più la qualità dei prodotti made in Italy. Ma questo non basta a rassicurarci. Nonostante da più parti giungano previsioni e segnali di un’economia che riparte, sul mercato interno la tanto agognata ripresa noi non la vediamo ancora.

Le condizioni per uscire dal tunnel della crisi ci sono: mi riferisco a tre fattori determinanti.

L’apprezzamento del dollaro nei confronti dell’euro, con la conseguente crescita competitiva per le nostre imprese che operano su mercati internazionali.

Il perdurare di un basso prezzo del petrolio che si traduce in minori costi energetici per le nostre imprese e in generale per il Paese.

Infine, la stabilizzazione dello spread su valori vicini a quelli della prima parte del 2011, che determina un minore costo del debito e, pertanto, un miglioramento dei conti pubblici, forse con qualche spazio per nuovi investimenti.

Molti osservatori cominciano a prevedere che gli effetti di questi tre fattori concomitanti possano contribuire ad attivare dinamiche di crescita imprevedibili fino a qualche settimana fa. Tuttavia, queste tre condizioni faticano ancora a tradursi in segnali evidenti di rilancio dei consumi interni e degli investimenti da parte delle imprese.

Quando vi incontro, cari Colleghi imprenditori, dal Nord al Sud del Paese, non scorgo ancora gli effetti della ripresa. Piuttosto percepisco, diffuse ovunque tra voi, tra noi, l’ansia e l’attesa di vedere concretamente realizzati quei cambiamenti di passo che il Governo, negli ultimi mesi, ha ripetutamente annunciato.

È vero, qualcosa si è mosso e si sta muovendo. In cantiere c’è molto: c’è il Jobs Act, c’è la riforma fiscale, c’è la riforma della pubblica amministrazione. Basterebbero questi tre argomenti per condensare la maggior parte delle attese degli imprenditori.

RIFORME/Non bastano tweet e ‘libro dei sogni’. Manca contatto con realtà. Sbagliato fare a meno di associazioni d’impresa e di ‘corpi intermedi’

Siamo realisti: la pesante eredità lasciata da 7 anni di crisi non si spazza via in pochi mesi. Ma non possiamo nemmeno cullarci nel ‘libro dei sogni’ oppure accontentarci di qualche tweet pieno di entusiasmo: la comunicazione è importante, ma non basta a chi, come noi imprenditori, ogni giorno e nella realtà, deve fare i conti con le tante cose che non cambiano nel Paese.

Ecco, è proprio il contatto con la realtà che rischia di venir meno. Lo dico perché penso sia profondamente sbagliata e dannosa per il Paese l’intenzione di fare a meno dei corpi intermedi della società. Come se si potesse gestire una relazione diretta potere-cittadini, che assomiglia di più alla dimensione plebiscitaria che ad una relazione democratica.

La democrazia, infatti, si nutre di livelli intermedi di ascolto e di interpretazione: nessun partito, nessun movimento, nessun leader può riuscire a cogliere la complessità di una società radicata e composita come la nostra senza accettare la sfida del confronto, che è fatica, dialettica, voglia di incontrarsi proprio con chi, come Confartigianato, le imprese le conosce, le aiuta a crescere e le sostiene in ogni fase della loro attività.

Colleghi, la rete di cui siamo protagonisti non è quella virtuale di internet, è quella vera dell’ascolto delle imprese, delle relazioni tra le imprese, tra le famiglie, con i lavoratori, i territori. Relazioni che partono da vicino ma arrivano lontano, fino ad estendere i rami ai paesi esteri.

E allora, concretamente, guardiamo alla realtà. Ad esempio, guardiamo proprio a Expo e al lavoro che ha generato, all’economia che ha mosso e sta muovendo a Milano, in Lombardia, in Italia. Conosco molte nostre imprese che hanno rimesso in moto l’attività proprio lavorando all’Esposizione universale.

Per agganciare la ripresa usare bene poche risorse disponibili: puntare su rilancio investimenti e avvio piccoli medi cantieri

Per rivitalizzare investimenti, produzione, lavoro bisogna usare bene le poche risorse che abbiamo. Non possiamo contare su una spesa pubblica infinita. Pertanto i margini di manovra sono legati ai risparmi e all’efficientamento delle risorse a disposizione del nostro Paese.

Insomma, il problema è: come intercettare e sfruttare appieno l’onda della possibile ripresa?

Servono iniziative capaci di supportare davvero i primi segnali della tanto attesa uscita dal tunnel della recessione. Devono essere incisive ed immediatamente tangibili, soprattutto nel sostegno alla ripresa degli investimenti, che rimane elemento decisivo per il rilancio dell’economia.

Dobbiamo partire dalla rigenerazione sostenibile del territorio, da quelle piccole e medie opere infrastrutturali che, oltre a migliorare la qualità della vita e la sicurezza dei cittadini, sono essenziali per il rilancio dell’economia e di una filiera fondamentale come quella delle costruzioni.

Il recupero e la riqualificazione del patrimonio di edilizia e la riorganizzazione degli spazi urbani devono coniugare efficienza energetica, compatibilità ambientale, logistica, innovazione e digitalizzazione, per dare concretezza al concetto di smart cities.

L’avvio in tempi rapidi di questi cantieri garantisce un effetto moltiplicatore sull’occupazione, ma per farlo è necessaria una modifica del patto di stabilità interno, che va reso più flessibile per consentire l’utilizzo dei fondi disponibili nelle casse delle amministrazioni locali. Così come è auspicabile la maggiore valorizzazione delle energie territoriali attraverso gli “appalti a chilometri zero”.

Ma territorio in Italia significa, anche e soprattutto, arte, tradizione, cultura. Per questo Expo 2015 vedrà unite Confartigianato e FAI – Fondo Ambiente Italiano, nel comune obiettivo di difendere e valorizzare le eccellenze artigiane e i beni ambientali, artistici e monumentali del nostro Paese, in una serie di iniziative che si svolgeranno durante questi sei mesi.

Qui a Expo l’Italia si confronta con tutti i Paesi del mondo su temi decisivi per il futuro dell’economia globalizzata. E rivendichiamo con legittimo orgoglio i primati positivi dell’Italia su molti fronti.

Troppi record negativi italiani ostacolano l’impresa

Ma non possiamo nascondere i nostri tanti, troppi record negativi per quanto riguarda le condizioni necessarie al fare impresa, che ci collocano molto indietro nelle classifiche internazionali. Ce n’è di terreno da recuperare! Per risalire al 15° posto entro il 2018, come auspicato dal Premier Renzi, dobbiamo scalare 50 posizioni e fare un sorpasso ogni 27 giorni!

Si realizzino finalmente riforme annunciate dal Governo per risolvere problemi economia

Per poter agganciare la ripresa, gli artigiani, i piccoli imprenditori, si aspettano che finalmente prendano forma e abbiano concretezza le riforme annunciate dal Governo.

Il Governo ha fatto la scelta, subito al proprio insediamento, di partire con il processo di riforma costituzionale, per intervenire sulla necessità di ammodernare e migliorare la struttura stessa delle istituzioni e dei pubblici poteri.

È una scelta di cui abbiamo condiviso e condividiamo la necessità, anche se non la priorità temporale, visto che l’economia dipende non solo dalla struttura dello Stato, ma anche – e prima – da molti altri fattori e processi.

Tuttavia, ripeto, riteniamo necessaria la riforma costituzionale, innanzitutto per migliorare i poteri locali dopo una stagione di federalismo “becero”, che non ha valorizzato i territori, ma ha generato confusione e aumento di costi per le imprese.

Non piangiamo, poi, sulla fine del CNEL, che consideriamo uno strumento che non ha corrisposto al fine, anche se riteniamo comunque che sia necessario, in linea con ciò che accade nelle altre democrazie europee, avere un organismo di rappresentanza delle forze economiche e sociali.

Quanto alla riforma elettorale, confermiamo il nostro giudizio positivo per ogni sistema che assicuri stabilità e forza al Governo, sulla base dell’interesse alla governabilità che è funzione di serenità per il sistema delle imprese. Attenzione, però, a non consegnare strumenti esclusivi nelle mani di pochi: questa sarebbe una deviazione dall’equilibrio del gioco democratico.

Parlavo della necessità di un complesso di riforme, che vadano a risolvere i problemi pressanti dell’economia.

FISCO/Priorità al taglio delle tasse: oggi paghiamo 29 miliardi in più della media Ue. Tasse sulla casa aumentate del 153% in 4 anni

Bisogna cominciare subito e dalla priorità assoluta: la riduzione del peso delle tasse. Per continuare poi sui fronti della burocrazia, del credito, del mercato del lavoro, delle infrastrutture, dell’innovazione, dei ritardi di pagamento della P.A.

Tra il 2005 e il 2015 l’Italia, tra tutti i Paesi europei, ha subìto il maggiore aumento della pressione fiscale: il risultato è che oggi paghiamo 29 miliardi di tasse in più rispetto alla media UE, pari ad un maggior costo di 476 euro pro capite.

Soltanto la tassazione immobiliare è passata dai circa 10 miliardi dell’ICI del 2011 ai quasi 25 miliardi del gettito IMU e TASI del 2014, con un incremento del 153%. E questo aumento, purtroppo, non ha risparmiato gli immobili strumentali delle imprese – capannoni, laboratori, ma anche i macchinari imbullonati nelle nostre aziende – che vengono tassati alla stregua di seconde case. Come se produrre e dare lavoro fosse un lusso! Vi sembra normale che un bene utilizzato nell’impresa, che serve per creare reddito e sviluppo per il Paese, venga trattato come un immobile posseduto da un grande rentier?

FISCO/Imprese pagano tasse sulle tasse: 1,4 miliardi di imposte sui 7,2 miliardi versati per l’IMU

Come se non bastasse, dobbiamo pagare le tasse sulle tasse. Già, perché la non deducibilità dell’IMU ai fini IRAP e la sua deducibilità parziale ai fini delle imposte dirette fa sì che, oltre ai circa 7,2 miliardi di IMU, le imprese debbano versare anche 1,4 miliardi di imposte fra IRES, IRPEF, addizionali ed IRAP. Con un incremento di quasi il 20% della tassazione sugli immobili strumentali delle imprese.

Come si può essere competitivi con una zavorra tanto pesante sulle spalle? Che fine ha fatto l’annunciata riforma della tassazione immobiliare all’insegna della semplificazione? Chiediamo al Governo di correggere queste storture in sede di introduzione della nuova Local Tax, che dal prossimo anno dovrebbe sostituire IMU e TASI.

Vigileremo, anche, affinché la riforma del catasto non provochi ulteriori aumenti di tassazione e affinché la clausola di salvaguardia dell’invarianza di gettito sia effettivamente rispettata.

FISCO/Split payment costa a imprese 230 milioni

Che dire, poi, dello split payment e del reverse charge, se non che siamo di fronte a scelte incaute, pagate a caro prezzo dalle nostre imprese – 230 milioni di maggiori costi soltanto per lo split payment – e in netta contraddizione con l’annunciato nuovo corso della riforma fiscale?

Riforma che pure abbiamo apprezzato nei suoi principi e in alcuni decreti, come quello sul fisco digitale, che hanno impresso un cambio di marcia nel percorso della semplificazione e dell’innovazione.

Ma attenzione: mancano ancora molti tasselli per attuare la delega che il Parlamento ha affidato al Governo più di un anno fa. Non è una marcia un po’ troppo lenta? Non è il caso di accelerare?

FISCO/Si attui rapidamente delega fiscale per ridurre peso del fisco

Il Governo non deve perdere la straordinaria opportunità offerta, con voto unanime, dal Parlamento per modernizzare il nostro sistema fiscale, per renderlo più semplice ed equo, a misura di piccole imprese, al servizio del contribuente.

Si deve procedere in tempi strettissimi all’approvazione degli altri decreti attuativi previsti dalla delega fiscale. Si avvii concretamente uno dei tanti fondi taglia tasse per redistribuire tra le imprese le maggiori entrate provenienti dalla lotta all’evasione o dalla riduzione della spesa pubblica.

A proposito di spesa pubblica consentitemi un inciso, che è anche un consiglio per la nostra politica, troppo spesso legata a logiche lontane dalla realtà. Il recente successo elettorale di David Cameron evidenzia che con una economia in crescita e una maggiore governabilità si possono vincere le elezioni anche riducendo il peso della spesa pubblica: tra il 2010 – anno di insediamento dell’esecutivo guidato dal leader conservatore – e il 2015 la spesa primaria del Regno Unito è diminuita di oltre 5 punti di PIL. In Italia nello stesso arco di tempo, si sono succeduti quattro governi e la spesa è salita di quasi 1 punto di PIL.

Si istituisca l’Imposta sul reddito delle imprese (IRI) per dare concreti benefici fiscali ai tanti imprenditori che investono gli utili nella propria azienda. Si tassi il reddito delle imprese in contabilità semplificata in relazione ai ricavi realmente incassati; si definiscano i parametri che escludono le piccole imprese dalla tassazione IRAP; si riformi il contenzioso tributario affinché diventi un giusto processo, si rivedano le sanzioni amministrative garantendo proporzionalità fra sanzione e danno erariale.

LAVORO/Lavoro non si crea per decreto. Dal 2008 persi 12.000 occupati al mese. Serve cambio di marcia

Quanto all’occupazione, tutti sappiamo bene che non si crea per decreto: se le imprese non hanno lavoro, non possono nemmeno offrirlo. Apprezziamo lo spirito e gli obiettivi che animano il Jobs Act, tuttavia, al di là delle tante previsioni circolate finora, dobbiamo ancora capire quante assunzioni stabili contribuirà davvero a creare. C’è tanto da recuperare: dal picco pre-crisi del 2008 ad oggi, gli occupati sono diminuiti di un milione di unità. Abbiamo perso 12.000 posti di lavoro al mese!

Anche qui confidiamo in un cambio di marcia. I primi provvedimenti del Jobs Act ci inducono a sperare che si stia passando da una visione sostanzialmente negativa dell’impresa al riconoscimento del suo valore sociale. Perché senza impresa non ci sono né lavoro, né benessere.

Spero si possa abbandonare per sempre l’idea secondo la quale il modo migliore di incentivare la creazione di lavoro stabile consiste nell’aumentare le rigidità di utilizzo ed il costo del lavoro flessibile.

Ma vedo alcune ombre all’orizzonte laddove il Jobs Act ha scarsa attenzione verso quella importante e peculiare forma di partecipazione dei lavoratori nell’impresa artigiana che è la bilateralità, frutto di una visione collaborativa e non antagonistica dei rapporti fra impresa e lavoro nell’artigianato. Quarant’anni di esperienza bilaterale potrebbero infatti essere cancellati con un colpo di spugna se il decreto attuativo degli ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro annullasse nella sostanza l’autonomia del Fondo di solidarietà bilaterale dell’artigianato, il nostro Fondo che eroga sostegno al reddito in caso di sospensioni dal lavoro per temporanee crisi aziendali, gestito e realizzato su misura per le esigenze delle imprese artigiane.

LAVORO/Apprendistato ‘cannibalizzato’ da Jobs Act. Va rilanciato davvero per il futuro dei giovani

E poi, devo rilevare qualche contraddizione: il Governo lancia un contratto unico a tutele crescenti che sta cannibalizzando l’apprendistato e, nel frattempo, con il disegno di legge sulla Buona Scuola, annuncia di voler rilanciare l’apprendistato. C’è qualcosa che non va! E purtroppo riguarda il futuro dei giovani. Occorre ridurre la distanza che separa la scuola dal mondo del lavoro e per le nuove generazioni sono sempre più scarse le occasioni di conoscenza della realtà imprenditoriale e le opportunità di formazione in azienda. E dire che tra il 2010 e il 2014 le imprese artigiane hanno investito quasi 2 miliardi l’anno nella formazione sul campo ai neoassunti.

L’apprendistato, per l’artigianato, rappresenta molto di più di un semplice contratto di lavoro agevolato. L’apprendistato è parte della nostra storia e rappresenta l’assunzione di una grande responsabilità: quella di creare un legame tra il presente (i nostri imprenditori) ed il futuro (i nostri giovani); quella di far crescere i giovani ed insegnare loro, attraverso il lavoro, non solo le tecnicalità di mestieri che molte volte hanno secoli di  storia e di altri che sono appena nati, ma anche di trasmettere il valore artigiano delle cose belle, fatte con passione, con cura, competenza, capacità di innovare.

Il Maestro artigiano, quando affianca un apprendista, gli trasmette spesso il senso di una vita.

Le esperienze positive di apprendistato che hanno contribuito a fare la fortuna di Paesi come la Germania e la Francia dovrebbero rappresentare per noi esempi da seguire per la costruzione di un modello italiano di apprendistato che riesca ad integrare pienamente apprendimento e lavoro, rimettendo al centro del rapporto la valenza formativa del lavoro e la persona del giovane apprendista, con i suoi talenti da scoprire ed i suoi progetti da realizzare.

Politica economica è spesso orchestra stonata. Meno annunci, più cambiamenti concreti

Colleghi, l’impressione che abbiamo spesso noi imprenditori, rispetto a molti provvedimenti di politica economica, è quella di tanti segnali discordanti. È come se, in un’orchestra, ogni musicista suonasse un proprio spartito, diverso da quello di tutti gli altri. E quel che è più grave, il frastuono dell’orchestra rende sordi alle istanze che arrivano dal mondo produttivo e da chi lo rappresenta.

Meno annunci, meno personalismi, meno ansie di protagonismo. Più attenzione alla realtà, maggiore ascolto, più cambiamenti concreti. Di questo hanno bisogno le imprese, di questo ha bisogno il Paese.

Dicendo questo, non vorremmo essere tacciati di essere i “professionisti del non ce la farete mai”: è comodo dare del menagramo a chi suggerisce soluzioni realistiche e sostenibili.

Noi siamo gente concreta, siamo orgogliosi delle nostre aziende e del nostro Paese. E, proprio per questo, vorremmo che cambiasse davvero, che cambiassero le condizioni per fare impresa e per migliorare la nostra capacità competitiva.

ENERGIA/Pmi pagano energia il 30% in più dell’Ue. Su costo bolletta 44% di tasse

Non vogliamo più dover pagare il 30% in più, rispetto ai nostri colleghi europei, l’energia che ci serve per produrre. Non vogliamo più dover pagare il 44% di tasse sul costo finale della bolletta elettrica.

Sul fronte dei costi energetici, non ci stancheremo mai di ripetere che va messa mano con urgenza alla sperequazione per cui l’80% del gettito fiscale arriva dalle piccole imprese. Non va meglio dal punto di vista degli oneri, dove le grandi imprese pagano solo il 7% di un fabbisogno che quest’anno ha raggiunto i 15 miliardi.

Tuttavia, nel corso dell’ultimo anno si sono registrati dei segnali di attenzione positivi, di cui hanno beneficiato 845.000 basse tensioni e 101.000 medie tensioni, grazie alle riduzioni rese possibili dal cosiddetto “tagliabollette”. Questo provvedimento, per la prima volta, ha ridotto i costi di circa 623 milioni di euro. Purtroppo, il conto oneri che pesa complessivamente sulle bollette è molto elevato e questo fa sì che in termini percentuali il risparmio per le piccole imprese sia circa il 3%.

Per questo motivo vogliamo andare oltre e, pur consapevoli dell’importanza di aver invertito la tendenza, stiamo insistendo in questi giorni con il Ministro Guidi per fare in modo che destini le risorse derivanti dalla Robin Tax per l’ulteriore abbassamento delle bollette delle piccole imprese avviato quest’anno.

CREDITO/Finanziamenti a Pmi calati del 3,2% in un anno

Non vogliamo più vederci negare allo sportello delle banche quei finanziamenti che ci servono per mandare avanti l’azienda, per innovare i nostri prodotti. Nonostante l’iniezione di risorse della Banca Centrale Europea, quest’anno i prestiti alle piccole imprese sono diminuiti ancora del 3,2%. Quantità e qualità del credito bancario rimangono inadeguate rispetto alle necessità espresse dalle aziende, soprattutto dagli artigiani e dai piccoli imprenditori. Non siamo ai livelli degli anni più neri della crisi, ma i rubinetti delle banche continuano a restare troppo chiusi.

Ebbene, io dico che per far risalire il PIL tutti devono fare la propria parte, a cominciare dagli Istituti di credito che non possono far mancare il carburante indispensabile a ridare slancio al nostro sistema imprenditoriale e a far ripartire l’economia.

Vanno altresì potenziati quegli strumenti che, anche negli anni più bui della crisi, hanno mostrato di essere i più adatti ad alleviare i problemi di accesso al credito delle piccole imprese. Parlo del sistema della garanzia (Confidi, Fondi locali di garanzia, Fondo centrale di garanzia), che ha svolto un ruolo fondamentale per assicurare un adeguato flusso di finanziamenti bancari alle piccole e medie imprese.

Se fossimo astronauti diremmo: “Governo, Banca d’Italia, c’è un problema!”. I grandi gruppi bancari si sono dati un’organizzazione con la quale erogare piccoli prestiti – i 30, i 50, i 70 mila euro – a un costo industriale, tale da non renderli più convenienti. E le altre banche, quelle di territorio, le Popolari e le Banche di credito cooperativo, sono pressate verso lo stesso modello delle grandi banche.

Questo non va bene: l’industria bancaria non va omologata verso l’alto. Deve diventare sicuramente più efficace, con governance più qualificate, ma conservare una sana “biodiversità” riduce i rischi sistemici.

EUROPA/Ue ‘dimentica’ le piccole imprese

Ho richiamato finora le responsabilità del Governo italiano. Ma a preoccuparci è anche la scarsa attenzione della politica europea nei confronti delle micro e piccole imprese.

Mi riferisco in particolare agli strumenti messi in campo in questi mesi dalla Commissione Europea per stimolare la crescita e la competitività. Dal Piano Juncker al mercato unico digitale, al pacchetto Unione dell’energia.

Ci ha deluso, poi, il fatto che la Commissione Europea, nel suo programma per il 2015, non ha inserito tra le sue azioni la revisione dello Small Business Act, quella Comunicazione europea del 2008 che, seppur non cogente, grazie al suo principio chiave “Think small first” (“pensare innanzitutto al piccolo”), ha consentito l’adozione, negli anni scorsi, di normative a dimensione di piccola impresa.

In vista del prossimo Consiglio competitività del 28 maggio 2015 chiediamo che il Governo italiano, coinvolgendo gli altri Governi europei, si attivi per rimettere al centro dell’Agenda politica europea le politiche per le micro e piccole imprese senza le quali non si può parlare né di crescita né di competitività.

BUROCRAZIA/Non diteci ‘gufi’ se chiediamo semplificazione

Non crediamo di dover essere iscritti tra i “gufi” se chiediamo che le cose cambino, e cambino davvero, anche per un altro aspetto che sta a cuore ai nostri imprenditori: la burocrazia. La semplificazione degli adempimenti amministrativi è un’altra di quelle materie che deve finalmente uscire dalla politica dell’annuncio per approdare, con effetti concreti e misurabili, nell’attività quotidiana degli imprenditori.

Abbiamo apprezzato gli impegni contenuti nella riforma della Pubblica Amministrazione. Ma non ci devono essere ritardi nell’attuazione del cronoprogramma indicatoci dal Ministro Madia. Altrettanto necessari sono gli interventi per rendere le Camere di Commercio sempre più funzionali alle esigenze delle imprese, che devono essere avviati già nel corso della seconda lettura del provvedimento alla Camera dei Deputati.

Le Camere di Commercio riformate (e noi – ed io in particolare – non possiamo certamente essere accusati di non aver spronato negli anni scorsi il sistema camerale a lasciare ambiti di attività impropri e ad efficientarsi), le Camere di Commercio dovranno essere quel “bagnasciuga” tra il pubblico e il privato dove le imprese, a partire da quelle più piccole, possano trovare il fulcro dei sistemi economici locali capaci di connettersi con il mondo, di rendere amichevole e semplice il rapporto con funzioni pubbliche quali quelle della giustizia civile, di migliorare l’incontro fra domanda e offerta di lavoro, di spingere verso la digitalizzazione.

Da vessazione burocratica nascono corruzione e ‘mazzette’

Le riforme sono sempre piene di ottimi principi e di lodevoli intenti. Troppo spesso, poi, nella realtà cambia poco. Potrei citare decine di esempi di come l’Italia non riesca a scrollarsi di dosso il brutto vizio dell’eccesso di burocrazia, del balzello a tutti i costi, del potere del timbro e dell’autorizzazione a suon di certificati, permessi e controlli. Tutto questo serve soltanto a perpetuare il potere dei mille livelli dell’apparato burocratico e a rubare tempo e denaro ai nostri imprenditori.

È un brodo di coltura dove possono nascere comportamenti devianti. Dobbiamo infatti ricordare quanto danno fa al Paese, ai cittadini, alle imprese, il peso della corruzione. Dalla vessazione burocratica nasce la “mazzetta”.

Non ha usato mezze parole Papa Francesco quando l’ha definita una “piaga putrefatta della società” che “mina fin dalle fondamenta la vita personale e sociale” ed “impedisce di guardare al futuro con speranza, perché con la sua prepotenza e avidità distrugge i progetti dei deboli e schiaccia i più poveri”.

Così come il Presidente della Repubblica Mattarella, per il quale “non sarà mai abbastanza sottolineata l’alterazione grave che deriva alla vita pubblica, al sistema delle imprese, al soddisfacimento dei bisogni della comunità, dal dirottamento fraudolento di risorse verso il mondo parallelo della corruzione”.

Ma corruzione e criminalità non sono mali incurabili: dobbiamo crederlo concretamente. La storia comincia a cambiare dal basso, ed in questo senso – al di là e a prescindere da qualsiasi riforma potrà essere messa in campo dalla legge – il nostro compito è quello di continuare ed intensificare le nostre forme di reazione civile per la legalità, la trasparenza, l’eticità dei comportamenti, la lotta alla criminalità organizzata ed alla corruzione a qualsiasi livello. Certo, è scomodo e a volte pericoloso, ma è un ruolo che facciamo nostro ed intendiamo giocarlo fino in fondo.

Anche questo è il senso del nostro essere un sistema di “corpi intermedi”, che non giunge alla ribalta mediatica, ma silenziosamente assicura al Paese stabilità economica e democratica.

CONCERTAZIONE/Vuota liturgia finita. Associazioni d’impresa si occupano davvero dei problemi della gente

Non è un’opera teorica, o finalizzata a occupare una posizione politica. Il ruolo dei corpi intermedi non risiede nella liturgia vuota della cosiddetta concertazione, la cui epoca è per fortuna terminata.

Noi non ne sentiamo la mancanza perché noi non c’eravamo a praticarla.

È un’azione molto pratica, che non ha nulla di artefatto, non nasce nei salotti, ma dal rapporto vero e reale con la gente, con le imprese, con i lavoratori, con le difficoltà e le speranze che noi cerchiamo di ascoltare, interpretare, tradurre in fatti.

Vogliamo fare esempi? I Consorzi Fidi, il Welfare realizzato attraverso i Fondi bilaterali, inteso come sanità, pensioni, ammortizzatori sociali e sostegno al reddito. Ma non solo: ho parlato prima dell’attività contro la corruzione e la criminalità, che si accompagna a mille e mille iniziative di ogni genere per fare politica nel senso più puro e vero: occuparsi della gente.

Siamo a crocevia: no a Italia ‘a taglia unica’, artigiani e piccole imprese sono energia e grandezza del Paese e siano modello per azioni della politica

Mi avvio a concludere.

Colleghi, ci rendiamo conto di essere – oggi più che mai – giunti ad un crocevia. La crisi ha causato molti cambiamenti nella struttura economica italiana, con la scomparsa o la migrazione di molte aziende di grandi dimensioni, che ha da un lato impoverito la struttura produttiva del Paese e la sua capacità di essere protagonista nel mercato globale, ma dall’altro ha mostrato ancor di più la forza del suo tessuto connettivo, formato dai milioni di artigiani e micro e piccole imprese che hanno dato all’Italia quell’energia – prima di tutto morale e sociale – che è necessaria per reagire alla crisi e mantenere il nostro posto nel mondo.

Non pecchiamo di presunzione a dire che, se l’Italia ha saputo contenere gli effetti della crisi devastante e sistemica che ha caratterizzato gli ultimi anni e potrà avere le forze per reagire e ripartire, lo si deve per molta parte alla tenuta di questo reticolo imprenditoriale che è stato in grado di riorganizzarsi, certamente con molte sofferenze (in questi sette anni il sistema economico ha perso circa 82.000 imprese), ma in ogni caso facendo leva sulla forza e sul coraggio dei singoli e delle loro reti di prossimità. Non siamo andati all’estero a cercare capitali, non abbiamo venduto le aziende, abbiamo lavorato per renderle più solide nonostante tutto e tutti.

E allora questo è il crocevia: è tempo che veramente il modello imprenditoriale e sociale italiano – che è quello delle piccole imprese – sia il modello di riferimento delle azioni messe in campo dalla politica, dal Governo, dalle Istituzioni: non siamo noi il problema da risolvere, come invece, ancora e sciaguratamente, sentiamo dire in molte, troppe sedi, dalle Università ai centri di potere.

Per questo noi combattiamo la nostra battaglia quotidiana contro le azioni finalizzate a ridurre l’Italia ad un Paese “a taglia unica”, valorizzando le differenze perché solo le differenze riescono ad aderire e a descrivere una realtà economica e sociale così complessa ed anche così straordinaria.

E non parlo solo dell’economia: legando famiglie e persone in reti locali di incredibile forza e tenuta, garantiamo ogni giorno inclusione e coesione sociale, tenuta democratica e speranza nel futuro.

Sentiamo parlare di ottimismo e fiducia, talvolta a sproposito. Ma vorrei chiedere: chi ha maggiore fede nel futuro, maggiore speranza e maggiore ottimismo di un imprenditore che ogni giorno trova le forze per aprire la propria azienda? Tirando su la saracinesca dell’officina o accendendo il computer o la stampante 3D, ogni giorno noi compiamo un atto di fede in noi stessi, nella società, nei nostri collaboratori e clienti, in una parola: nell’uomo e nelle sue immense capacità di trasformazione del mondo.

Ogni giorno scendiamo in campo sul serio e con le nostre forze, con la nostra fiducia, pensando a noi, al nostro Paese ed ai nostri figli, per dare anche a loro la speranza del futuro.

Da qui passa l’unità nazionale, che la nostra Costituzione disegna come unità di comunità, di famiglie, imprese, formazioni sociali. Da qui passa la democrazia, intesa come scambio equilibrato di diritti e doveri.

La grandezza del nostro Paese è nella piccola impresa e la grandezza della piccola impresa sta nella sua creatività, nell’elasticità dei suoi comportamenti economici, nell’aderenza al tessuto sociale nella concretezza dei rapporti quotidiani.

Noi crediamo in questa grandezza, siamo fieri di costruirla ogni giorno, siamo coscienti della responsabilità che abbiamo e siamo felici di dare il meglio di noi stessi, contribuendo allo sviluppo della nostra società e del nostro Paese.

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