3 Settembre 2008, h. 00:00

Federalismo? La parola agli economisti

La riforma federalista dello Stato è partita da tempo. Addirittura dagli anni ’90. E non si è ancora conclusa. Nel frattempo il sistema Paese, invece di godere dei benefici della riforma, ha dovuto pagare un conto salato a causa dei ritardi e della frammentarietà delle misure adottate che nel tempo si sono sovrapposte le une alle altre con differenti intenti e diverse visioni dello Stato. Soprattutto è mancata l’attuazione del federalismo fiscale, conseguente al rinvio dell’approvazione delle leggi ordinarie necessarie a dare efficacia all’articolo 119 della Costituzione, che di fatto ha prodotto una situazione di stallo generalizzata dovuta all’incertezza di reperimento delle risorse delle Regioni. Il resto lo ha fatto il peggioramento dei conti pubblici nazionali che ha ‘consigliato’ il Governo di rallentare la spinta centrifuga delle regioni, imponendo un rigido patto di stabilità. Oggi la strada del federalismo fiscale sembra definitivamente imboccata. La “bozza Calderoli” è a un passo dal Consiglio dei Ministri, e il testo, anche se non definitivo, permette di compiere le prime valutazione. Alla Summer School di Confartigianato, il tradizionale appuntamento settembrino della confederazione quattro autorevoli economisti – Antonio Marzano (Presidente del CNEL), Nicola Rossi (professore di Economia politica dell’Università di Torvergata e Senatore del PD), Giuseppe Vitaletti (professore ordinario di Economia dei Tributi all’Università di Viterbo, già Presidente dell’Alta Commissione per la definizione dei meccanismi strutturali del Federalismo Fiscale), Massimo Bordignon (professore straordinario di Scienze della finanza dell’Università Cattolica) – hanno illustrato i pregi e i difetti della ‘bozza’ e spiegato perché in Italia è così difficile una svolta in senso federalista. Secondo Bordignon il federalismo fiscale è lo strumento che più di ogni altro può permettere allo Stato di raggiungere quell’efficienza necessaria per affrontare le sfide che attendono il Paese. Ma a precise condizioni. “Il federalismo fiscale può aiutare a raggiungere l’obiettivo di rendere più efficiente lo Stato, ma è necessario rispettare alcuni vincoli per evitare che i risultati da positivi si trasformino in negativi, con esiti disastrosi. Il centro deve essere forte: deve fare controlli rigorosi e misurare con continuità le performance delle amministrazioni territoriali. Poi bisogna attribuire competenze e risorse ai territori. Infine si devono responsabilizzare i politici locali”. Il nodo centrale, quello più difficile da sciogliere, quello che nei fatti rende complessa la partita del federalismo, rimane il profondo divario tra nord e sud. Un divario che fino a oggi nessuna politica è riuscita a colmare, ma a cui il federalismo potrebbe dare una risposta. “I numeri dei residui fiscali, ovvero la differenza tra quanto un cittadino versa in tributi e riceve in termini di servizi, dimostra che tutte le regioni sono vicine in ordine di spesa. E’ la distribuzione delle entrate che è molto più variegata. Queste dipendono dal reddito e determinano grandi differenze in termini di entrate. Il risultato è che il divario tra Nord e Sud è uguale a quello di 30 anni fa e che il reddito percepito al Sud è circa il 60% di quello del Nord”. Con quale risultato? “Buona parte delle spese da finanziare si trovano al Sud mentre i soldi sono al Nord”. All’origine della frattura tra le due parti del Paese, il Senatore Nicola Rossi vede un preciso colpevole. “In Italia, la linea di frattura tra Nord e Sud è determinata dal comportamento dello Stato. Al Nord, infatti, interviene negli ambiti di propria competenza, come la Sicurezza, la Scuola e la Sanità, al Sud, invece, fa molte cose che non dovrebbe fare ma che soprattutto non gli competono. Continuando con le politiche degli ultimi anni, la distanza tra Nord e Sud rischia di rimanere tale almeno per i prossimi cinquant’anni. Un solo esempio: i centri intermodali, il segnale più chiaro di una programmazione politico-economica che guarda al futuro. Il divario tra Nord e Sud è quantificabile in 156 a 1″. Inevitabile, dunque, giungere alla conclusione che oggi l’unico intervento possibile per colmare il gap è rappresentato dal federalismo, ed in particolare quello fiscale. La perequazione verso i territori con minore capacità fiscale non può essere messa in discussione. Così come non si può penalizzare il Sud perché ha redditi più bassi. Questo almeno il pensiero dell’ex Ministro delle Attività Produttive Antonio Marzano. “I vantaggi sono diversi. Dalla restituzione di una maggior capacità di autogoverno del Meridione alla più efficace conoscenza dei territori e degli interventi necessari. Infine, con il federalismo, il cittadino ha la possibilità di verificare e di giudicare, secondo criteri maggiormente democratici, il lavoro delle amministrazioni locali. A questi aspetti positivi, fanno da contraltare alcuni aspetti negativi. Su tutti, una classe dirigente meno preparata perché selezionata a livello locale, e la possibilità che i gruppi di pressione, le cosiddette lobbies, possano aumentare sensibilmente il proprio potere d’influenza sui decisori”. Un invito alla prudenza arriva anche da Nicola Rossi. Secondo il professore bisogna essere cauti: il federalismo non fornisce una risposta a tutte le domande del sud del Paese. Alcuni problemi sono peculiari del Meridione e vanno risolti a un livello differente da quello locale. “Se il principio chiave del federalismo è la convinzione per cui le decisioni migliori sono quelle prese a livello territoriale, nel caso del Mezzogiorno bisogna fare molta attenzione, perché il 90% dei problemi più acuti sono transregionali, e non locali. Penso alla Salerno – Reggio Calabria o alla rete idrica pugliese, tutti problemi che non possono essere risolti esclusivamente a livello locale, come ingenuamente si è pensato a metà degli anni Novanta. Nella costruzione del federalismo – conclude Rossi – spero non si vada nella direzione della valutazione della spesa storica per l’attribuzione delle risorse, un dato che oggi indica uno stato patologico e non una situazione sana. Il criterio da adottare è quello che prevede un adeguamento al livello di efficienza delle Regioni virtuose”. La conferma dell’auspicio di Rossi, che cioè il modello di federalismo proposto da Calderoli consenta finalmente il passaggio dai costi storici a quelli standard per l’attribuzione delle risorse, sembra ormai scontata. Lo stesso Vitaletti, nel suo intervento, lo pone al primo posto tra gli aspetti più rilevanti della “Bozza”. “Il pubblico inizia a ragionare in modo simile a un privato, compie analisi e comparazioni di segmenti di produzione. E’ la sfida dei prossimi anni. E’ essenziale ridare efficienza alla spesa. Con l’identificazione dei costi standard delle prestazioni ci sarà più controllo; le comparazioni costringeranno gli amministratori locali a una maggiore trasparenza e le situazioni patologiche saranno evidenziate. Finisce il Paese del Bengodi e cambia la mentalità: gli amministratori dovranno arrangiarsi con le risorse attribuite loro”. Da dove provengono le risorse? Quali tributi saranno gestiti direttamente dal territorio? Qual’è la filosofia che sulla materia anima la “bozza Calderoli”? E’ ancora Vitaletti a rispondere. “La filosofia è quella della correlazione: rendere alle regioni i tributi che hanno più a che vedere con la “cosa” che amministrano. Nel caso dell’Ici ha trovato applicazione tale filosofia. Si avvicina ciò che si tassa a ciò che si amministra”. Ma c’è un problema. “La filosofia della Calderoli è giusta ma rischia di non trovare reale attuazione. L’Irap, ad esempio, non risponde al principio cosa amministrata cosa tassata. Neppure il bollo automobilistico e le tasse sui carburanti: entrambi vanno alle Regioni, ma sarebbe più logico che andassero alle province”. Altri aspetti critici della bozza Calderoli li segnala il professor Bordignon. “Parliamo delle anticipazioni. Attribuire l’Irpe

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